«Pace a te, fratello contadino. Dimmi: è questa la via per il Monte Capraro?». «Scì, fruatr’», rispose l’uomo togliendosi il cappello in segno di riverenza verso la tonaca francescana del mio maestro. «Nù mò stem’ alla Macchia. R’ Mond’ Cuaprar’ è quir’ell loc’ abball’», proseguì facendo alcuni gesti con le mani e pronunciando altro nell’idioma del volgo. «Magistre, quid villanus dixit?», gli domandai nella lingua della Chiesa. «Che abbiamo un bel po’ di strada da fare, mio caro Bernardo. E non sarà per nulla agevole per l’asperità dei luoghi che dovremo attraversare», replicò immediatamente lui nell’umile modo di esprimersi della gente comune.
Viaggiavamo da circa una settimana. Eravamo partiti dall’abbazia di Montecassino, dove io, secondogenito di Ugone, feudatario di Monte Miglio, avevo preso, da fanciullo, i voti monacali. Andavamo all’eremo di san Giovanni Battista sul Monte Capraro. L’anno precedente, il priore Isidoro da Sora era tornato alla Casa del Padre e ora toccava a me, nonostante la mia giovane età, prenderne il posto. Lo aveva deciso l’abate in persona, Bernardo Aiglerio. Conoscevo molto bene quelle contrade per esserci nato e cresciuto. Forse, la mia nomina gli tornava utile anche per distendere i rapporti conflittuali con mio padre, sorti a causa di continue liti confinarie tra il feudo laico di Monte Miglio e quello benedettino di Vallesorda. In questo viaggio, l’abate aveva voluto che fossi accompagnato da un suo vecchio amico di studi universitari a Parigi: il francescano Guglielmo da Arles, intellettuale raffinatissimo, già docente di diritto romano presso lo Studium di Bologna e, da giovinetto, allievo prediletto di frate Daniele da Capracotta, primo ministro della Provincia francescana di Monte Sant’Angelo Frate Guglielmo aveva accettato di buon grado questo incarico: avrebbe potuto constatare di persona la bellezza della natura e l’umiltà e la laboriosità degli abitanti di quell’angolo di mondo tanto decantato dal suo maestro negli anni del noviziato.
Eravamo partiti all’alba da Montecassino. Frate Guglielmo viaggiava soltanto con una piccola bisaccia. Vestiva la tonaca bigia con cappuccio e camminava a piedi senza portare calzature secondo la Regola del suo Ordine. Non avevamo alcuna mappa per orientarci. Il mio maestro confidava esclusivamente nella bontà del prossimo. Infatti, fermava chiunque incrociasse il nostro passo, senza alcuna distinzione sociale ed economica, per chiedere delucidazioni sulla strada da seguire. Parlava in latino con gli ecclesiastici, in francese con i nobili e in volgare con i bifolchi. Così, tappa dopo tappa, dopo sei giorni di duro cammino, eravamo giunti ad Agnone del Sannio. Avevamo trascorso quella notte presso i frati della chiesa di Maiella. Il giorno successivo, di buon ora, frate Guglielmo aveva salutato calorosamente i suoi confratelli e ci eravamo incamminati verso il Monte Capraro puntando, però, in direzione di Capracotta. Troppo forte era, per lui, la tentazione di guardare da vicino, con i propri occhi, la patria del suo amato maestro!
«Ma cosa ha detto, in particolare, quel contadino, maestro?», gli chiesi, stavolta in volgare, appena riprendemmo il nostro tragitto. «Mio caro Bernardo, anche tu parli nel linguaggio rustico del popolo? Vedo che l’aria di casa ti fa bene!», rispose sorridendo. E aggiunse: «Mi ha semplicemente indicato il percorso a gesti, elencandomi i nomi delle località che dovremo attraversare. Ne deduco che quest’ultimo tratto del nostro viaggio non sarà particolarmente facile. Ma ce la faremo, mio caro Bernardo, ce la faremo. Non vorremmo mica arrenderci alla fine, vero?». «Maestro», continuai incuriosito, «come faremo a individuarle se non abbiamo neppure una carta geografica della zona? Stavolta, non credo che sarà facile incontrare qualche altro buon cristiano a cui poter chiedere aiuto». «La natura circostante ci indicherà la via». «Come farà?» «Mio caro figliolo», replicò con un pizzico d’orgoglio, rispolverando le sue conoscenze in diritto romano, «nomina sunt consequentia rerum. Perciò, basterà guardarci intorno. Per esempio, Bernardo, cosa vedi qui?». «Una boscaglia intricata di arbusti». «Secondo te, è possibile far legna?». «No». «Infatti, siamo in località Macchia, dal latino macula. Altrimenti ci troveremmo in una “selva”. Vedi quel monte? Si chiama Monte Campo. Sai perché?». «No». «Perché la cresta appare pianeggiante. Se fosse stata dentellata, si sarebbe chiamato serra. Questo termine latino indicava inizialmente la sega, lo strumento di lavoro dei falegnami, ma poi, per similitudine, ha finito per denominare la frastagliatura delle vette montuose. Come vedi, con un po’ d’occhio e tanta pazienza raggiungeremo la nostra meta».
«Bene, maestro, mi pare di aver capito che ci troviamo alla Macchia. Quale sarà la prossima tappa?». «La località Morrone. La riconosceremo facilmente: deriva da murrone, roccia. Poi, attraverseremo la Lamatura, dal latino lama, terreno scosceso. Dovremo stare attenti a dove metteremo i piedi per non ruzzolare giù per la valle. Lì, vedremo sulla destra un’ampia zona disboscata con colture a “balzo”, le Cese, dal verbo latino caedere (tagliare), mentre diritto, davanti a noi, apparirà oramai vicino il borgo fortificato di Capracotta. Proseguiremo verso nord fino a raggiungere un boschetto situato immediatamente a ridosso dell’abitato. Lì, consumeremo il nostro pranzo presso la fonte Communicia, dal latino communis, cioè la sorgiva della comunità cittadina». L’interessante chiacchierata rese più piacevole l’ascesa. Mangiammo nel luogo indicato al mio maestro dal contadino della Macchia, seduti su un masso all’ombra di un grosso albero, con lo sguardo rivolto verso quel monte che avevamo fiancheggiato poco prima e che, come ci raccontò un boscaiolo che rientrava in paese proprio in quel frangente, i Capracottesi chiamano affettuosamente R’Cuamp. «Il Campo, mio caro ragazzo. Rotacismo con dittongazione metafonica della vocale lunga “a” in “–ua”, fenomeni fonetici tipici della parlata meridionale», affermò col suo piglio da ex docente. «Questo idioma, Bernardo, è molto più vivo e affascinante del tuo latino. Chissà, magari un giorno, qualcuno ne raccoglierà i vocaboli in un unico testo, un dizionario della dolce favella del scì…», aggiunse ridendo a crepapelle. In realtà, era serio. Ripeteva in continuazione che, prima o poi, questo dialetto dei popolani avrebbe soppiantato il linguaggio aulico dei dotti.
Alla fine del pranzo, ci rimettemmo in cammino. Con mio grande stupore, il maestro non volle entrare nella cittadina. Erano i primi giorni d’agosto. Capracotta brulicava di gente. I pastori ritornavano a casa dalla lunga transumanza. Frate Guglielmo avrebbe voluto fermarsi per conoscere i familiari del suo maestro. Ma non c’era tempo. Quel vecchio saggio sapeva benissimo che doveva portare a termine la sua missione senza alcun ritardo nei tempi di marcia prestabiliti. Così, ci limitammo a costeggiarla, ammirandone le possenti mura e le imponenti torri difensive. Il sole splendeva sulle nostre teste. Il cielo era terso.
Il Monte Capraro, oramai, era davanti a noi. Sembrava che potessimo toccarlo con le dita. Ma il mio maestro non aveva ancora terminato la sua “lezione”. «Guarda alla tua sinistra, Bernardo. Quella laggiù è la località Fossata. Anche stavolta c’entra il latino: da fossa, avvallamento del terreno. Lassù, un’altra Lamatura. Lì in fondo sulla destra c’è lo stazzo, che qui chiamano Jaccio dal latino iacere, della Vorraine, cioè della borragine. Una leggenda racconta che la Madonna abbia mangiato questa pianta prima di partorire Gesù». «Maestro, ho ascoltato con molta attenzione le vostre parole. I nomi di questi luoghi sembrano derivare tutti dal latino. Eppure, Livio ci insegna che queste terre sono state la patria della bellicosa nazione dei Sanniti…». «Hai letto Livio? Bravo. Vedi, Bernardo, l’Italia è la terra delle mille patrie. Tanti anni fa, andai a Florentia dal mio amico Bentivoglio da Fiesole: lì si considerano tutti Etruschi… Bisogna stare molto attenti quando si cita Livio perché è molto facile cadere nella sua trappola: lui elogia il valore dei popoli italici, che hanno combattuto contro l’Urbe, soltanto per esaltare le virtù dei romani che li hanno sconfitti. Ma nessuno lo capisce… Così, oggi, gli italiani decantano le gesta dei Sanniti, degli Equi, dei Volsci, dei Galli e degli Etruschi dimenticando, invece, le proprie vere origini longobarde e francesi.
Chi credi che abbia fondato Capracotta? E Agnone? Questi due toponimi parlano chiarissimo: i Longobardi. Capracotta richiama espressamente una cerimonia religiosa pagana che gli Uomini dalle Lunghe barbe celebravano in onore del dio Thor, sacrificandogli una capra e mangiandone le carni cotte durante un banchetto rituale. Agnone, invece, deriva dal latino anguis, serpente, un animale sacro a quella popolazione. I Longobardi di Benevento governarono stabilmente per circa cinque secoli i territori del Sud Italia, favorendone la crescita demografica e la ripresa economica tramite la sapiente opera dei monaci benedettini. A difendere l’Alto Molise, chiamarono i tuoi avi: la famiglia Borrello, di origine provenzale. Nel 1040, Gualtiero Borrello, signore di Agnone e delle sue pertinenze, donò al monastero benedettino di San Pietro Avellana tutta la montagna di Vallesorda con la sua chiesa di san Nicola e tutto il Monte Capraro con l’eremo di san Giovanni Battista. Anche l’attuale feudatario di Capracotta è di origine francese: Gentile della Posta, succeduto l’anno scorso al padre Francesco, prode cavaliere di re Carlo d’Angiò».
Arrivammo, infine, alle falde del Monte Capraro, Mons Caprarum, il monte delle capre. Lì, vicino a una piccola sorgiva, la Fonte Fonticelle, il mio maestro mi affidò a una delegazione di monaci dell’Eremo. Divenni, in quel momento, a tutti gli effetti il nuovo priore del complesso religioso del Monte Capraro. Frate Guglielmo conosceva molto bene le regole della Natura, del Mondo e… della Chiesa. Sapeva che, d’ora in avanti, avrebbe dovuto trattarmi con rispetto e riverenza. Quando ci separammo, tuttavia, egli mi abbracciò con la tenerezza di un padre e mi disse: «Mio caro Bernardo, il germoglio si è fatto pianta. Il giovane monaco di Montecassino si è fatto uomo. I tuoi confratelli ti aspettano. Sii per loro esempio costante di umiltà e misericordia. Ricordati degli abitanti di questi luoghi. Benedicili e salvali nella Fede in Nostro Signore, Gesù Cristo. Se avranno una guida giusta e sicura, Iddio farà di loro un gran popolo. La tua sapienza e le tue opere sorpassino la fama del tuo antenato e predecessore, Ruele, che, ispirato dal Dio d’Israele, non dimenticò mai di annunciare la Buona Novella del Regno Celeste e di essere un padre autorevole e caritatevole per i monaci e i viandanti. Diletto figlio, va in pace. Che il Signore ti sia di conforto nei momenti difficili ed esaudisca le tue preghiere. Amalo sempre con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze. Adesso, però, lascia che questo povero vecchio se ne vada in cerca di un giaciglio sicuro dove poter far riposare, stanotte, queste malferme ossa».
Raggiunsi la sommità del Monte Capraro, accompagnato dai miei confratelli, attraversando il fitto bosco di faggi, cerri e aceri che tanto mi ricordava la foresta del Monte Miglio della mia fanciullezza. Mi fermai sull’uscio dell’eremo per guardare, ancora una volta, il mio maestro. Si allontanò a passo svelto verso Capracotta. Presto, scomparve alla mia vista. Non lo rividi più. Né so cosa sia accaduto di lui. Ma prego sempre che Iddio abbia accolto l’anima sua e gli abbia perdonato i molti atti d’orgoglio che la sua fierezza intellettuale gli aveva fatto commettere.
Ora che sono vecchio, molto vecchio, attendo serenamente la chiamata del nostro Creatore alla Vita Eterna. Gli occhi si stancano facilmente alla fioca luce della candela. La mano spinge con fatica il calamo sulla dura pergamena. Le gambe vacillano dopo pochi passi. Ma la mente, grazie a Dio, è ancora lucida e torna spesso ai miei ricordi di ragazzo. E, in particolare, alle ultime parole del mio maestro, frate Guglielmo da Arles.
Ho cercato in tutti questi anni di seguire il suo consiglio, confidando sempre nell’aiuto della Provvidenza. La pace di Nostro Signore regna da tempo tra il feudo laico di Monte Miglio e il nostro feudo di Vallesorda, dal latino Vallis Surda: valle senza eco. Non ci sono più conflitti e soprusi. I monaci vivono diligentemente osservando la Regola di San Benedetto: pregano e lavorano, rendendosi utili anche per i pellegrini e gli uomini e le donne del circondario. Numerosi coloni coltivano, a condizioni economiche vantaggiose, i terreni di proprietà benedettina e usano liberamente il mulino dell’Eremo sul fiume Verrino. La progenie dell’uomo cresce e si moltiplica nella Grazia di Dio. Ed è cosa buona e giusta.
Salva il tuo popolo, Signore, guida e proteggi i tuoi figli.
Ogni giorno ti benediciamo, lodiamo il tuo nome per sempre.
Degnati oggi, Signore, di custodirci senza peccato.
Sia sempre con noi la tua misericordia: in te abbiamo sperato.
Pietà di noi, Signore, pietà di noi.
Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno.
In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti
Amen.
Bernardus de Monte Millio,
Prior Eremi Sancti Johannis Baptistae in vertice Montis Caprarum
Anno Domini MCCCXXXIV
Francesco Di Rienzo