Un carrettino, fattura dell’ultimo quarto del ‘700, trainato da un solo cavallo, con una postazione per il cocchiere ridotta al minimo e quattro posti su due panche longitudinali; specifico per piccole – dame e donzelle – a passeggio nei pomeriggi d’altri tempi! Delicato per le sue geometrie, fine per la sua meccanica… avanzata: assale portante ammortizzato a balestre e marche pied posteriore per l’accesso, era compatibile per sottane monumentali, appunto, d’altri tempi; in legno pregiato e acciaio, quasi un giocattolo intelligente, era una raffinatezza.
Da bambino lo ammiravo parcheggiato lì in fondo, in un angolo della nostra rimessa carrozze, che dà sul cortile, come un cimelio da museo, funzionante ma non andava neanche toccato; lo ricordo fin nei particolari, proprio come le memorie indelebili della prima infanzia.
Avevo quattro anni, mio padre Ruggero mi raccontava di tre cavalle inglesi nella stalla a fianco: “Perché, papà, ora non ci sono più?”. E lui: “Era il ’43 il tuo anno di nascita, l’Italia era in guerra, ma noi a CAPRACOTTA, a quelle alte quote, ( 1421 m s.l.d.m. per quei pochi al mondo che ancora non lo sanno) ci sentivamo fra le nuvole, fuori dai pericoli”.
Infatti, come in una fiaba, da una rupe di roccia a strapiombo, dominiamo la vallata del fiume Sangro; sull’altra riva anche la catena degli Appennini si arrampica, ma meno imperiosamente di noi; ancora più in là il massiccio maestoso della Maiella. Panorama dolcissimo questo, uno dei tanti, che CAPRACOTTA offre a tutti generosamente da sempre, ma che allora, nel contrasto più aspro, urtava con la sua utilità strategica di guerra: per i tedeschi in rotta era un osservatorio naturale sulla loro migliore via di fuga verso la riviera adriatica.
Mio padre, ancora: “Fummo occupati da specialisti delle truppe tedesche, che appunto programmavano la ritirata”. Il comando dell’avamposto si stabilì proprio a casa nostra; qui decisero, poi, di attuare il ‘deserto di fuoco’ per gli inglesi che li incalzavano. Delle nostre forze militari in gran parte sbandate o impegnate altrove, neppure l’ombra. Così in paese fu appiccato il fuoco a tutte le case, senza che nessuno potesse validamente difenderle. Quelle costruite con meno legno e più pietra tennero. La nostra resistette. Ma non scampò al precipitare degli eventi nelle ultime ore di permanenza tedesca in paese. In quei frangenti il colonnello tedesco impose a zio Gregorio, fratello di nonna Teodolinda, podestà in carica, che scegliesse una sola casa da salvare tra le tre più grandi del paese (1. il Comune; 2. il complesso ‘ Convento – Asilo – Scuole’, -attualmente Residenza Sanitaria-; 3. casa nostra). Le altre due KAPUTT!” Mio zio cercò di trattare con il Colonnello con tutta l’anima e la sua esperienza di avvocato; alla fine ottenne, che le strutture da salvare fossero due. Poi, nello stupore dei pochi presenti, disse testualmente: “CASA MIA PRIMA O POI LA RICOSTRUISCO, NESSUNO RESTITUIRÀ’ AI MIEI CONCITTADINI I DUE PALAZZI PUBBLICI NELLA LORO IMPONENZA, COSI’ COME SONO ORA”.
Con questa semplicità, un uomo che amava il suo popolo scrisse una pagina limpida della storia dell’ultima guerra.
Subito prima di andarsene, i Tedeschi fecero brillare una mina gigantesca piazzata al centro del salone grande (attuale ristorante ‘Il boscaiolo’), proprio sulla rimessa. Crollò la sua bella volta, i due piani superiori ed il tetto: quasi la metà della parte alta della casa prospiciente il Corso Sant’Antonio. Ma il pavimento in grandi lastre di pietra era ancora lì sul solaio della rimessa, aggrappato ai possenti muri di cinta e sostenuto dai quattro archi a crociera con le rispettive volte.
Un amico che ora mi leggesse potrebbe osservare: “Sono stato a cena da ‘Elfo’ (ottimo ristorante che attualmente esercita nei locali della rimessa), come mai non ho notato queste volte che ora mi stai citando?”. Ed io: delle strutture architettoniche che non cedettero alla grande mina brillata nell’agosto del ’43, restano nella ex rimessa soltanto patetici ruderi di pilastri in muratura mozzati poco più che ad altezza d’uomo. Stanno lì a testimoniare quanto spesso l’imperizia della mano umana in tempo d i pace possa essere peggiore del male estremo della guerra.
Mio padre decise di abbandonare ciò che era rimasto della nostra casa, pensando di spostare la sua famigliola in Puglia, che, si diceva, fosse più decentrata. “Partimmo io e tua mamma che ti aveva allora nel pancione, proprio perché tu potessi nascere… Noi tre su un biroccino trainato da Stellina, una delle tre cavalle, con una stella bianca in fronte su un bel mantello baio. Se sei qui lo devi a lei. Snella, elegante, non capricciosa, era abituata soltanto a correre. Però mentre passava per quelle strade ormai poco più che sentieri o guadava ruscelli sotto i ponti distrutti, come calata nella realtà del momento, lei rallentava il suo passo e sceglieva il percorso; si, forse per dare il minimo di sussulti a tua madre”.
Tre giorni dopo questo viaggio, sono nato a S. Paolo di Civitate, in Puglia, in casa di mia madre Eva MANES. Qui, lontani dalla guerra, restammo per più di tre anni.
Appena a CAPRACOTTA ci furono le condizioni minime per portarci a vivere un bambino, si ripartì. Questa volta in corriera e treno, ma, per soste e coincidenze, il viaggio durò più o meno come quello dell’andata. Tante cose non c’erano più. Molte altre le aveva protette e salvate zia Marietta, una sorella di mio padre, quella nubile, rimasta da sola nascosta in casa nella sua eroica versione di vestale del sacro fuoco di famiglia. Per lo scopo aveva persino rischiato la vita più volte. Non c’erano più le altre due cavalle inglesi di cui mi raccontava papà…! C’era ancora lo ‘char à bancs’ nella rimessa nell’angolo giù in fondo. Aveva superato la prova della guerra, era… imbattibile.
Anche per lui venne il giorno della sua rimozione (il locale andava trasformato per diventare appunto il ristorante “ELFO” dello chef Michele SOZIO); pur se di piccole dimensioni, non sembrava ingombrante solo nei grandi ambienti come la rimessa; bisognava trasferirlo altrove, ma dove? Non fu semplice superare questa impasse. Doveva essere una postazione dalla quale avesse modo di entrare nel cuore di altri bambini come aveva fatto con me. Ed eccolo: illuminato, fiammante e felice nell’atrio dell’edificio della Scuola Elementare. Lo affidai all’allora Preside prof. Vittorio GIULIANO, della cerchia delle mie conoscenze ravvicinate di una vita; fu felice di averlo in consegna tra i suoi giovani studenti. Non mancai, però, di sottolineare quanto ci tenessi.
Per alcuni anni, passandogli davanti, lo ammiravo e sorvegliavo, lui felice mi rassicurava, pareva mi dicesse: “Tranquillo, dopo secoli, sono nella mia dimora definitiva”. Ma come tutto passa, Vittorio un giorno andò in pensione. Non molto tempo dopo, il carrettino non c’era più! Vittorio da me allarmato, non riusciva a crederci, si scusava, minacciava chi sa chi e chi sa cosa, si riscusava, si impegnò ad indagare. Per me era assurdo perderlo, dovevo ritrovarlo. Così passarono circa due anni, forse più, ogni traccia sembrava perdersi lontano. Improvvisamente girò ‘voce’ mi sembra di averlo visto nel ‘prato di CONTI’ sotto il grande pioppo, quasi completamente nascosto dalle cicute e gli sterpi” Mi bastava per riaverlo, sapevo dov’era, tante volte avevo rasentato il grande pioppo durante le operazioni di sfalcio del fieno; ero felice e inc…to, non so quale delle due sensazione predominasse.
Mi trovai lì quasi di un balzo: gli mancava una ruota, era stato sotto le intemperie, ma il suo legno era quasi intatto per la sua qualità e la stagionatura; il ferro battuto veniva da gran mestiere. Poteva ringiovanire con un buon restauro. Ero rasserenato per aver trovato la prima soluzione. Subito dopo andavo rimuginando: “Ma se il danno da esposizione ad agenti atmosferici non era grave, era anche evidente che vi era stato esposto per poco tempo. Dove era stato per il resto del lungo periodo della sua sparizione? Chi si era “pentito?”… Non ho più voluto indagare oltre.
Qualche tempo dopo il presidente della ‘Pro Loco’, Tiziano Rosignoli, si offrì di provvedere al restauro del carrettino per poi esporlo nel periodo estivo, pieno di gerani rossi, nella piazzetta del forno. Mi sorpresi ad accettare subito; era veramente uno spettacolo: un trionfo di quei fiori e la bella casa in pietra sullo sfondo gli facevano da cornice. C’era pure una targhetta che ne garantiva finalmente la provenienza, come in un museo. A fine estate lo ‘char à bancs’ fu riportato, con le cautele del caso, nel mio negozietto al Corso S. Antonio, 38. Entrò a stento dalla porta vetrina e occupò la metà della superficie del vano. Ma, illuminato da una grossa lampada, tenne subito ‘botta’ come un bel pezzo da museo.
Ma neanche questa era la sua definitiva dimora. Affittai il negozietto ed il carrettino dovette ancora traslocare. E’ davvero ingombrante? Si, forse lo è, come quando ingombra di gioia il cuore di un bambino.
Ferdinando D’Alena