Le due famiglie Di Nucci (Carmenone) e Di Lullo (Paciglie), abitavano in due casa contigue nell’ultimo gruppo di case di Capracotta verso il Verrino ed erano legate anche da “comparizia”. Normalmente producevano carboni nei mesi invernali negli stessi boschi: mio padre, mio nonno Domenico e Agostino Di Lullo (Ustenaccie) andavano insieme a fare il sopralluogo nei boschi anche perché era difficile che tutti e tre sbagliassero la valutazione. Non solo ma lavorare in particelle contigue si traduceva in un reciproco vantaggio. Ad esempio, le due squadre, collaborando alla costruzione del pagliaio dove trascorrere tutta l’invernata, riducevano a metà le notti da passare sotto il cielo stellato; non si era soli quando c’erano inconvenienti sul lavoro potendo contare sull’aiuto l’uno dell’altro. Era lunga da passare l’invernata nel bosco.
Nell’inverno del 1944 le due famiglie decisero di produrre carboni nei dintorni della stazione ferroviaria di Chieuti, in un bosco denominato le “Fantine di Chieuti”. Le fantine erano tipiche zone umide che, per larga parte dell’anno, erano all’asciutto: quelle terre dovevano essere bonificate per essere destinate ad uso agricolo. E così avvenne ed oggi, osservando la zona, si stenta ad immaginare che lì ci fossero dei boschi rigogliosi. Non tutta la nostra famiglia trascorse l’invernata alle Fantine; ero rimasto, piccolo com’ero, a Capracotta con nonna Filomena, zio Emilio, zio Michele e zia Gina; quelli che andarono non partirono inoltre tutti insieme.
Papànonno e ze Ustine de Paciglie raggiunsero il bosco con una beghétta (carrozza trainata da un cavallo, ndr) di proprietà di Giacheme Paciglie (Giacomo Di Lullo) che era rimasta a Capracotta e doveva essere riportata in Puglia. Così, alternando la cavalla e la mula al traino lungo la rotabile, fecero una prima tappa a fine giornata a Sessano, una seconda dopo Campobasso, una terza a Santa Croce di Magliano e una quarta a San Severo. Altri presero il treno o si spostarono a piedi lungo il tratturo. Gli ultimi ad arrivare furono zio Italo e comare Iuscétta (Angelarosa moglie de Ze Ustine).
Giovanni Di Lullo (soprannominato Pegniàta), figlio di Agostino e coetaneo di mio padre e la moglie Mariarita avevano un figlio in fasce, Gino, che portarono con loro. A primavera mio padre, mia madre, Giovanni e Mariarita con il piccolo Gino decisero di tornare a Capracotta lungo il tratturo portando il minimo indispensabile. Il piccolo gruppo procedeva in fila indiana: in testa Giovanni, poi mia madre e Mariarita, poi mio padre con il fucile a tracolla.
Normalmente i proprietari dei campi che costeggiavano il tratturo erano ospitali e conoscevano tutti i viandanti. Invitavano chi passava a scambiare quattro chiacchiere e a bere un buon bicchiere di vino o acqua fresca. Quando stavano risalendo il Saccione per attraversarlo, costeggiarono uno splendido orto irrigato alla perfezione e con rigogliosi cespi di insalata. Zio Giovanni chiese a gran voce se c’era qualcuno perché voleva comprare qualche cespo; non ottenne risposta e nonostante mio padre fosse contrario, scese nell’orto e ne colse uno.
Stava tornando sul tratturo quando da una casupola di frasche uscì il padrone che senza far rumore gli si avvicinò alle spalle e alzò la zappa cose se volesse colpirlo in testa. Mio padre imbracciò il fucile e gli gridò: «Se fià nuàrre puàsse te facce saldà le cervèlla!» (Se fai un altro passo, sparo!”). Il proprietario restò immobile con la zappa alzata e zio Giovanni girandosi si rese conto del pericolo che avevo corso. Spaventato e irritato prese il cespo di insalata e lo buttò in faccia al proprietario gridandogli: «E tù, pe ne pède de nzàlata me vulive accide!» (e tu per un cespo di insalata mi avresti ucciso!).
Il viaggio, che per poco non si tramutò in tragedia, durò quattro giorni. Mio padre e zio Giovanni avendo condiviso anni di lavoro sia nei boschi che nelle “calcare” erano come due fratelli e sono rimasti amici fino a quando sono vissuti. Andavano a caccia insieme e dopo quel famoso viaggio mio padre spesso lo prendeva in giro dicendogli che, se non fosse stato per lui, la sua vita sarebbe finita sulle rive del Saccione per un cespo d’insalata.
Domenico Di Nucci